Calabria: uno sviluppo impossibile

 

Francesco Longo

 

 

Da sempre  i teorici dello sviluppo economico, economisti e sociologi, hanno dato non poca importanza al ruolo dei fattori culturali nei processi di sviluppo e di crescita.

Diversi studiosi come Rostow o Lewis, ma non solo, si sono sforzati a spiegare lo sviluppo economico secondo i criteri dell’unicità del processo e dei mutui benefici. Ne è emerso che, nonostante i pareri contrastanti sugli effetti dello sviluppo economico e sulle tipologie che lo stesso processo può innescare nella società, la formazione della popolazione è uno degli elementi essenziali. La teoria della dipendenza, secondo la quale “si intende una situazione in cui l’economia di alcuni paesi è condizionata dallo sviluppo e dall’espansione di un’altra economia, alla quale la prima è sottomessa” , è un esempio del fatto che realtà maggiormente pronte ad affrontare i diversi mercati si allontanano da altre realtà completamente impreparate, mentre l’espansione e lo sviluppo di queste ultime è strettamente riflesso e condizionato dalla crescita dei paesi cosiddetti dominanti.

Da diversi anni, quindi, in particolare con l’elaborazione da parte di Inglehart di una banca dati sui valori mondiali (World Values Survey), costituita presso l’Università del Michigan, si è data minore importanza a quella visione unidirezionale che considerava i processi socioeconomici legati unicamente a fattori strutturali. Un esempio eclatante è dato dalle varie politiche per il Mezzogiorno, che hanno privilegiato gli investimenti in risorse materiali, trascurando la formazione, dando i risultati già commentati. Sicuramente la cultura e la formazione di una popolazione sono rilevanti, ma non per questo bisogna abbandonare le riforme strutturali, che da sole, ribadiamo, non bastano.

Diversi studi negli anni precedenti hanno confermato casi di insuccesso di politiche di sviluppo orientate unicamente ad uno sviluppo prettamente strutturale; in realtà non esiste un vincente tra idealisti e materialisti, la soluzione è quella di saper integrare bene le due teorie, considerando la cultura come fattore sempre presente, intendendolo quindi secondo l’accezione data da Triandis nel 1996: “c’è ampio accordo sul fatto che la cultura consista di elementi comuni che forniscono istruzioni standard per percepire, ipotizzare, valutare, comunicare e agire, in una popolazione che condivide la stessa lingua, la stessa epoca storica e la stessa localizzazione geografica. Tali elementi comuni vengono tramandati attraverso le generazioni con qualche modifica. Essi sono costituiti da assiomi non verificati e da procedure operative standard che riflettono ciò che ha funzionato nel passato, in un certo punto della storia di quel gruppo culturale”.

La tesi elaborata dal professore Marini concretizza e mostra il ruolo dei fattori culturali nei processi decisionali intendendoli come un filtro che condiziona l’attore economico.

Una volta accertato che queste risorse immateriali sono essenziali,  bisogna adesso capire quali sono questi fattori che caratterizzano i diversi atteggiamenti e che portano differenti realtà economiche e sociali.

Il modello di Inglehart modificato dal professor Marini evidenzia che i valori favorevoli alla crescita economica sono il senso di responsabilità e la voglia di indipendenza, mentre l’ostacolo dominante allo sviluppo è l’obbedienza, poiché la ricerca del potere e l’autoritarismo impediscono ai mercati di avviarsi e di funzionare con efficienza.

La voglia di indipendenza si rivela la motivazione prevalente che spinge l’individuo ad avviare attività imprenditoriali misurandosi apertamente con i mercati e quindi con i concorrenti esterni. Il tema, affrontato da Schumpeter, è ripreso anche da alcuni studi di Trigilia che vedremo in seguito.

Anche il senso di responsabilità, connesso alla voglia di indipendenza, è un elemento portante da non sottovalutare nell’intenzione di avviare il modello precedentemente descritto.

Nel Mezzogiorno, ed in Calabria in particolare, questi valori non mancano. Il paradosso quindi vede la Calabria come una regione tra le più dinamiche nel Mezzogiorno secondo questi indicatori. Allora perché risulta ancora il fanalino di coda per quanto riguarda gli aspetti puramente economici? La soluzione è da trovare nel terzo valore che caratterizza la Calabria e convive in conflitto con gli altri due: l’obbedienza. La lunga introduzione a questo lavoro, che delinea la situazione economica e sociale della regione e della provincia, presenta una terra che è stata sempre dominata, che ha quindi avuto sempre un governatore a cui rendere conto. Mostra inoltre una Calabria che si è sempre, in parte volutamente, sottomessa a comandanti esterni, e che non ha tentato, se non in sporadici casi particolari, di ribellarsi. Questa è un’altra differenza con diverse regioni del nord, che hanno sempre cercato di sconfiggere gli occupatori facendo prevalere l’identità locale, mentre al contrario la Calabria mostrava segni di asservimento e quindi di tacita e consapevole sottomissione.

Prevale quindi in questa ed in altre regioni del Mezzogiorno quel senso di obbedienza già accennato.

La popolazione reggina, e non solo,  ha sempre visto e vede tutt’ora lo Stato come un ente esterno alla società locale, obbligato a dare, assistere e mantenere il benessere, e che invece “ruba” le risorse. Da qui la costruzione del processo che considera lo Stato come un soggetto  da raggirare e imbrogliare per riavere ciò che detrae.

Nonostante infatti non manchino in diverse realtà interne alla regione il senso di responsabilità e di indipendenza, questa concezione dello Stato rimane, accompagnata dalla propensione all’obbedienza.

Nonostante i dati siano riferiti al 1996, analizzandoli attentamente notiamo che non fanno altro che riproporre la Tre Italie delineate da Bagnasco già nel 1977. L’autore infatti analizza i dati puramente economici nazionali e divide l’Italia in tre aree: l’Italia nord-occidentale, caratterizzata dalla grande impresa che ha trainato e imposto il modello di sviluppo nazionale; l’Italia del Centro Nord-Est, costituita dallo sviluppo creato in forme particolari dalla piccola impresa; “il Meridione, infine, è l’area del sottosviluppo relativo, dove l’economia si è disgregata e riorganizzata in dipendenza da esigenze esterne”.

L’analisi di Bagnasco è orientata a dimostrare, e ci riesce, che in realtà le tre conformazioni economiche sono caratterizzate da tre diverse formazioni sociali, che hanno influito non poco nei processi di sviluppo.

La struttura di classe, il sistema politico e i dati culturali hanno contribuito a delineare le tre situazioni apparentemente diverse in tema di mercato del lavoro, decentramento produttivo e piccola impresa.

È essenziale quindi comprendere la storia sociale e i rapporti in particolare nelle campagne, per giustificare le posizioni attuali. L’analisi storica per Bagnasco è comunque complementare, egli infatti privilegia infatti le nuove diversità, cioè i rapporti più recenti che hanno aumentato questi distacchi tipici di un ormai retorico contrasto Nord/Sud.

L’emergere di una borghesia industriale moderna, e quindi del proletariato industriale, hanno caratterizzato il processo industriale del Nord. Al Sud, invece, la dominanza di una borghesia agraria parassitaria sulla disgregazione contadina, ha costituito la stagnazione del mondo agricolo.

I processi reali del capitalismo nelle sue varie fasi sono caratterizzati dal blocco storico “che controlla la formazione e asseconda i modi dell’accumulazione industriale, coinvolgendo lo Stato nella gestione…”.

Bagnasco si sforza quindi di spiegare perché una borghesia più tradizionale e agricola ha bloccato lo sviluppo del meridione, e come invece una borghesia più orientata alla trasformazione e al cambiamento (e sicuramente più dinamica nei rapporti centro-periferia) ha innescato processi di sviluppo con successo. Quello che manca nell’analisi, e sicuramente non è compito di questa tesi dimostrare, visto che lo studio necessita di analisi più approfondite e per le quali diversi sociologi ed economisti si stanno impegnando, è la ricerca delle cause reali di queste differenze. Non viene cioè spiegato come due, o meglio tre formazioni originariamente uguali si trovino a subire un continuo distacco. Sicuramente non sono da trascurare la Rivoluzione Industriale e la vicinanza geografica delle due aree del Nord agli affari centrali dello sviluppo, ma non solo. La storia della Calabria, unica per eventi e naturalmente imparagonabile ad altre realtà,  è caratterizzata da strutture di classe totalmente differenti da quelle delle regioni del nord-ovest e del nord-est, che spiegano i vari clientelismi e legami a rapporti sterili di cui questa regione è purtroppo ancora protagonista.

La consapevolezza e l’assenso sociale hanno permesso di instaurare da parte dello Stato una modernizzazione forzata, imposta dall’alto, che ha comportato forti discrepanze tra Stato e mercato. Sappiamo infatti che, dove la forza sociale si è proposta come alternativa complementare, stato e mercato sono cresciuti di pari passo, costruendo strutture economico – sociali quasi complete. La mancanza di una forza attiva in questa provincia, dovuta, come già detto, alla formazione culturale esistente, ha impedito l’emersione di una società che riuscisse a “gestire” l’intervento pubblico e aiutare le istituzioni alla crescita. La modernizzazione, quindi, intesa come il continuo ampliamento della sfera d’influenza delle due entità (stato e mercato, appunto), si può dire che in Calabria non è avvenuta, o meglio che presenta timidi casi sporadici di emersione, ma senza ottenere benefici tangibili. Esempi eclatanti sono l’operato della Cassa per il Mezzogiorno e tutte le altre politiche di sviluppo per il Sud, che non potranno mai avere successo se sono viste solo come un obbligo di distribuire ricchezza, e se non si entra in un’ottica imprenditoriale produttiva. Da pochi anni a questa parte, come già analizzato nel primo capitolo, sono nati in Calabria, in particolare nel cosentino e nel crotonese, alcuni distretti industriali che fanno ancora fatica a crescere. L’isolamento della Calabria è dovuto quindi soprattutto  ai diversi eventi politici e alle sbagliate formazioni sociali, che hanno creato una regione debole nel confronto con  competitors nazionali ed esteri. Ne è un esempio la recente entrata nel mercato di paesi come la Spagna o la Grecia, che hanno decimato le esportazioni di prodotti agroalimentari calabresi.

Il problema da risolvere è allora quello di cercare di modernizzare stato e mercato grazie ad una partecipazione attiva e complementare delle due istituzioni. Per questo è necessario introdurre nella società regionale una cultura economica  rivolta all’investimento e all’innovazione permanente. Questo perché allo stato attuale, qualunque sia l’intervento tecnocratico (o dall’alto), sarà sempre sfruttato per creare una rendita a breve e non per generare risorse a medio–lungo termine, visto il solito concetto di Stato assistenzialista.

I processi di modernizzazione attuati finora, hanno comportato casi di successo e casi di fallimento. Lo scopo è quello di analizzarne le differenze per capire quali sono gli elementi concreti che possano favorire il successo delle politiche pubbliche e private orientate allo sviluppo, in particolare per fare in modo che questi sistemi turistici non si rivelino dei fallimenti perché costituiscono forse l’ultima carta da giocare per tentare il decollo.

 Agricoltura e turismo sono stati in diversi punti della regione fattori di sviluppo economico. Anche lo storico Manlio Rossi Doria affermava che il passaggio da un’agricoltura estensiva ad una intensiva è stato l’unico vero elemento di modernizzazione presente in Calabria, ed ha creato veri e propri imprenditori che hanno fatto della terra la principale fonte di ricchezza, se di ricchezza si può parlare. Negli anni Settanta e Ottanta, infatti, sono nate alcune cooperative a gestione familiare che hanno intuito il business del settore orientandosi all’esportazione dei prodotti agricoli anche all’estero, ciò è stato possibile grazie all’acquisizione delle competenze tecniche capaci di competere, all’individuazione dei potenziali e reali mercati di destinazione, e  la persistenza e la pazienza di aspettare il reddito consapevoli che può generarsi grazie ad economie di scala. Altri casi di successo possono essere individuati nel turismo, settore molto più recente di quello agricolo, dovuto al rientro delle risorse umane, quindi degli emigranti che in periodi di forte crisi avevano abbandonato la Calabria, che hanno acquisito e intuito i possibili fattori di sviluppo, e hanno con incredibile coraggio scommesso in attività redditizie sfruttando le risorse naturali della regione. Tra i casi di insuccesso troviamo invece le politiche pubbliche, come le spese in agricoltura e gli incentivi ai giovani imprenditori. Questo smentisce il fatto che le regioni con problemi di sviluppo sono caratterizzati da una bassa spesa pubblica. Il problema, infatti, è il metodo di utilizzazione di questa spesa. È necessario quindi coinvolgere un’integrazione tra pubblico e privato, definendo gli obiettivi e orientando le attività ad una crescita globale. Ciò non è possibile finché la voglia di evadere e di inserirsi in attività già avviate in altre regioni, caratterizza i desideri dei giovani calabresi.

Il discorso non vuole entrare nella secolare retorica sul contrasto Nord/Sud e sulle false considerazioni e luoghi comuni che stereotipano una visione della questione meridionale, ma l’analisi della situazione impone di fare certi confronti.

Anche Trigilia, nella terza edizione del 1992 di “Sviluppo senza autonomia”, dimostra, dati alla mano, che il sottosviluppo meridionale e le nuove trasformazioni della questione sono accompagnate da una diversa tipologia di intervento pubblico e da una diversa ricezione e interpretazione dello stesso intervento.

Trigilia spiega come un effettivo aumento del reddito delle popolazioni meridionali non sia accompagnato da un aumento della propensione ai consumi e agli investimenti, proprio le variabili che ci servono per accendere il processo moltiplicatore dello sviluppo. Viene deprecata la politica centrale, che non può avere alcun effetto positivo se resta una mera distribuzione di finanziamenti improduttivi. Qui Trigilia identifica le istituzioni sociali, in particolare la Regione, come un ente che opera dal basso, equiparato ai privati e sottomesso alle politiche statali centralizzate. Per cui l’autonomia che si propugna non è solo un buon senso comune di impegnarsi attivamente, ma deve essere anche una presa di posizione degli enti locali, che devono creare una propria identità orientata ad obiettivi concreti di sviluppo. Senza la creazione di un’identità che ripudia l’assistenzialismo e rinnova il desiderio di confrontarsi apertamente, l’intervento pubblico non può creare effetti né in termini di reddito complessivo, né in termini di benessere sociale.

L’identità locale è una caratteristica che ho riscontrato peraltro nelle campagne toscane ed in altre realtà durante miei studi precedenti.

Ad esempio, entrando nella città di Siena, sembra di entrare in una cittadella del Cinquecento ancora intatta,ed è tutta l’atmosfera a creare una visione di popolazioni continuamente alla riscoperta delle loro origini: prodotti creati come alcuni secoli or sono, strade pavimentate e restaurate nello stile originario, ma anche le stesse tipicità dei casolari, ricreati secondo antiche particolarità edilizie caratteristiche del Rinascimento. Sicuramente la cultura del bello, della riscoperta delle proprie origini, dell’estetica e della fierezza di essere calabresi, sono caratteri sui quali bisogna insistere molto. La storia della Calabria e degli eventi trascorsi nei secoli deve essere di dominio pubblico, per superare l’ignoranza delle proprie origini. Naturalmente ci sono dei dibattiti in corso in merito agli effetti perversi che potrebbe comportare un’eccessiva identità locale, ma ancora perché questa sia eccessiva ce ne vuole.

Ricapitolando, abbiamo analizzato l’importante ruolo dei fattori culturali e della formazione sociale locale affinché si crei o si incrementi il senso di responsabilità, il desiderio di indipendenza, una cultura imprenditoriale e soprattutto, da parte delle risorse umane regionali, la voglia di rimanere a creare uno sviluppo concreto ripudiando le allettanti offerte di realtà già avviate.

Questa lunga analisi sull’importanza dei fattori culturali nello sviluppo è stata volutamente descritta perché sarebbe facile dire che i presupposti per l’attivazione dei Sistemi Turistici Locali sono la presenza di risorse, la presenza di una minima offerta, la presenza o l’obiettivo di migliorare la dotazione infrastrutturale, ecc. Tutto ciò viene dato per scontato e verrà comunque affrontato nell’ultimo capitolo, dove sarà predisposto un Project Cycle Management relativo alla costituzione di un STL nella Locride. È necessario, per riprendere i timori di Becheri, e quindi per non trasformare questi strumenti in ennesimi tentativi fallimentari di sviluppo, considerare le tre caratteristiche che una comunità e quindi gli attori chiave devono avere:

-              Senso di responsabilità;

-              Desiderio di indipendenza;

-              Cultura imprenditoriale.

 

Gli enti pubblici devono quindi investire in questo senso, oltre che nelle opere materiali, comunque necessarie. Se l’abitante di Portigliola non sa che sotto i suoi piedi c’è la sua storia, quindi se non la conosce, non potrà mai amarla e, se non la ama, non potrà mai avere interesse a valorizzarla e a considerarla una fonte di reddito.

 

Il nove giugno 2003, durante un incontro con i sindaci della provincia di Reggio nella sala consiliare della Provincia, il Presidente Fuda dava il via all’attivazione di un processo che dovrebbe portare alla creazione di Sistemi Turistici Locali in tutto il territorio. Erano presenti numerosi sindaci di tutte le aree, che hanno dato il loro contributo all’avvio dei tavoli di concertazione.

Il nostro stage presso la Provincia di Reggio, infatti, non era rivolto alla valutazione o alla gestione di un programma già in atto, ma proprio alla creazione di un programma.

La passione ci ha spinto fin dall’inizio del Master a svolgere indagini sul territorio, a conoscere gli interlocutori, a verificare tutti quei dati economici e sociali che nessun istituto di statistica avrebbe mai potuto fornirci.

Il progetto presentato è ambizioso, e non a caso è preceduto da due lunghi capitoli di teoria. Abbiamo voluto giustificare ogni passo, motivare ogni decisione, consapevoli che tutto il lavoro è solo una proposta dell’equipe tecnica che  lo ha elaborato.

Adesso spetta alle istituzioni fare delle scelte. La programmazione dal basso implica necessariamente una predisposizione sociale. Non è stato neanche un caso, infatti, avere scelto la Locride (che preferiamo già chiamare Riviera dei Gelsomini), o meglio una zona strategica della Riviera. Lì vi sono molte forze sociali, imprenditoriali, politiche e della Chiesa che stanno lavorando allo sviluppo locale. Il compito della Provincia è quello di coordinare, promuovere e rispettare gli impegni nell’ambito delle sue competenze. Per creare un STL, infatti, non sono necessarie molte risorse finanziarie (quelle servono perlopiù agli investimenti di riqualificazione), il nocciolo duro invece è costituito da un regolamento, interno al sistema, dove ogni attore ha dei compiti da rispettare, perché è considerato un elemento di una grande catena di montaggio, che potrebbe fermarsi se solo uno non assolvesse agli impegni assunti. Nel STL di Verona, abbiamo visto, chi non rispetta gli impegni viene escluso.

La Camera di Commercio di Reggio Calabria, più che di sviluppo endogeno, parla di sviluppo endosogeno, perché è naturale che vi debba essere una forte predisposizione dal basso, ma senza infrastrutture, senza servizi, gli sforzi degli attori sociali e imprenditoriali è completamente inutile. Mentre la Regione Calabria ha una legge sull’offerta turistica nei centri storici posata nel cassetto dal 1988, nella Riviera vi sono diverse associazioni che stanno facendo i salti mortali per contattare i grossi proprietari e avere in gestione edifici dell’entroterra da offrire come ricettività. Questo e tanti altri esempi (si invita a leggere particolarmente le interviste a Mario Diano ed al Mons. Bregantini) ci hanno dato la conferma che la mentalità sta cambiando.

 Il popolo calabrese non deve più rassegnarsi e scegliere vigliaccamente (si perdoni il termine forte) l’emigrazione come via d’uscita  ad un ritardo di sviluppo da sempre auspicato e mai arrivato. Non vogliamo rimanere nell’Obiettivo 1, vogliamo un reddito pari almeno alla media europea, non vogliamo più soldi, vogliamo investire bene quelli che ci sono dai vari fondi e poi cominciare a produrne da soli, per uscire da quell’economia dipendente che ci caratterizza. Questo lavoro non vuole essere il solito libro di favole. Abbiamo pensato di mettere un mattoncino del castello che vogliamo costruire, ma l’integrazione e la cooperazione, la solidarietà e la ricerca di obiettivi comuni devono stare alla base. Tu solo puoi farcela – ha detto Mons. Bregantini –  ma non puoi farcela da solo.

 

 

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